martedì 30 ottobre 2012

E perché non la mettiamo sul rogo? Una storia, come tante, di caccia alla strega…


La strega in questione è Agnes Gereb, un’ostetrica ungherese che ha subito un processo (al quale è stata condotta con manette ai polsi e grosse catene alle caviglie) e che sta scontando una pena detentiva, in condizioni indegne e disumani, con privazione dell’uscita all’aria aperta, dell’accesso alla biblioteca, dell’uso di farmaci antidolorifici, delle visite dei familiari e dei contatti con il mondo esterno.



A questo brutale trattamento Agnes Gereb è stata condannata per asserita negligenza durante l’assistenza ad un parto in struttura extraospedaliera (non già a domicilio), all’esito del quale è deceduto il neonato.

La sentenza è giunta al termine di un processo iniquo, il cui Giudice ha inspiegabilmente respinto le rituali richieste di prova avanzate dalla difesa, ha obliterato i dati scientifici e le valutazioni medico-legali provenienti da esperti internazionali, ha trascurato le testimonianze degli stessi genitori del piccolo deceduto, benché idonee a fugare ogni dubbio sul corretto operato dell’ostetrica.

Quest'ultima, infatti, ha assistito al parto di una donna giunta, presso la casa di Maternità di Budapest Sunlight Birth House, a travaglio già iniziato e con i segnali di un parto precipitoso, a fronte dei quali nessun sanitario può esimersi dal prestare assistenza, a meno di non incorrere in un'omissione di soccorso; alla donna, seguita durante la gravidanza, la stessa ostetrica aveva vivamente sconsigliato il parto extraospedaliero, a causa di un disturbo della coagulazione del sangue; il personale della casa di maternità e l’ostetrica hanno compiuto sul neonato, nato con difficoltà respiratorie e problemi circolatori, tutti i tentativi di rianimazione possibili; l'ambulanza,  benché immediatamente chiamata dai sanitari, e' giunta con gravissimo ritardo, come ammesso dagli stessi responsabili del servizio ambulanze ungherese.

Eppure, c’è chi, evidentemente ignaro delle circostanze in cui si sono svolti i fatti e per nulla incuriosito da un’intera e variegata comunità internazionale che si mobilita per chiedere la scarcerazione di Agnes Gereb, dipinge questa ostetrica come un’incallita infanticida. La cruda semplificazione induce ad un’altrettanto cruda ma veritiera considerazione: anche a voler prescindere da un’analisi delle reali responsabilità, il tasso di mortalità nelle nascite assistite da Agnes Gereb (oltre 3.500 parti a domicilio) è di gran lunga inferiore al tasso di mortalità negli ospedali ungheresi … Ma, si sa, delle morti di donne e neonati negli ospedali (di quelli di tutto il mondo, purtroppo) non se ne parla volentieri e i casi vengono archiviati, dai media ufficiali e dall’opinione pubblica, piuttosto rapidamente.

Al contrario, contro le ostetriche ungheresi (Agnes Gereb non è l’unica professionista perseguita penalmente), si è scatenata una vera caccia alle streghe: non sarà perché in Ungheria, come altrove, quello dell’Ostetricia è uno dei settori più redditizi del sistema sanitario?

Piuttosto, il caso di Agnes Gereb dovrebbe illuminare: la sicurezza del parto non dipende tanto, o non soltanto, dal luogo in cui si svolge, bensì dal grado di integrazione e cooperazione tra assistenza ostetrica extraospedaliera e servizi sanitari ospedalieri.

Che questa sia la chiave di lettura di questa triste vicenda non lo pensa soltanto chi scrive: lo ha dichiarato la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, che, non a caso, decidendo un ricorso di una donna già assistita da Agnes Gereb, ha condannato lo Stato ungherese ad adottare le misure più idonee per garantire il diritto delle donne di scegliere dove e come partorire, stigmatizzando l’incertezza giuridica che regna in questo Paese, ove non si vieta il parto a domicilio ma si perseguitano le ostetriche che vi assistono (ricorso n. 67545/09, sentenza del 14 dicembre 2010, definitiva il 14 marzo 2011).

E già, lo dice la CEDU: le donne sono libere di partorire dove meglio credono, per usare le parole del Sig. Anonimo; gli Stati, però, hanno il dovere di garantire l’esercizio di questo diritto e, quindi, di assicurare l’assistenza sanitaria per l’emergenza, sia che sorga tra le mura ospedaliere, sia che sopravvenga ad un parto a domicilio.

Nel caso di Agnes Gereb questo non è avvenuto.

Gli accaniti oppositori del parto a domicilio portano quale unica argomentazione quella per cui il rischio di un’emergenza o di una complicanza al parto renda l’ospedale il posto “migliore” e “più sicuro” per la nascita.
Questa argomentazione è tanto ovvia quanto banale. Chiaramente, nessuna donna si sognerebbe di partorire a casa “in caso di emergenza”, così come nessuna ostetrica si esimerebbe dallo sconsigliare il parto a casa in presenza di situazioni non solo di “emergenza” ma anche di solo ipotetico, minimo rischio.

Evidentemente, l’argomentazione trae origine da una profonda sfiducia verso le donne, pensate come madri sconsiderate, snaturate e imprudenti, e verso le ostetriche, viste secondo l’arcaico immaginario collettivo delle streghe che, senza scienza e preparazione professionale, si tramandano il sapere di generazione in generazione.

E’ il caso di rassicurare gli scettici: di parto a domicilio si parla sempre e solo in caso di gravidanza fisiologica e a basso rischio; dal canto loro, le ostetriche non imparano “il mestiere” dalle loro nonne (con tutto il rispetto per queste ultime!), ma attraverso un percorso di studi normativamente regolamentato, che culmina con l’acquisizione di un diploma di laurea o di una laurea e di un titolo professionale abilitante all’assistenza al parto e che, questo è certo, conferisce loro la necessaria preparazione per distinguere tra condizioni fisiologiche e patologiche della gravidanza e del parto.

L’affermazione che sia l’ospedale sia il postomigliore” per la nascita di un bimbo è, in sé, legittima, beninteso: se essa viene da una donna e se esprime una personalissima preferenza per l’ospedale. Ma se la stessa affermazione vuole assurgere a perentoria rivelazione, si dimostra del tutto azzardata e priva di fondamento scientifico.

La gravidanza e il parto sono eventi fisiologici e, in assenza di reali esigenze medico-sanitarie, non devono essere necessariamente medicalizzati.

Ancora una volta, non è solo chi scrive a pensarla così: è l’Organizzazione Mondiale della Sanità, che già nel 1985 ha legittimato l’assistenza demedicalizzata al parto e la scelta del parto in casa, in sussistenza di condizioni di sicurezza, affermando che non è mai stato scientificamente provato che l’ospedale è più sicuro della casa per una donna che ha avuto una gravidanza normale. Studi su parti in casa programmati in paesi industrializzati e per gravidanze non a rischio hanno mostrato che le percentuali di complicazioni e di morti materne e neonatali erano uguali o inferiori rispetto a quelle relative ai parti in ospedale; è il Parlamento Europeo, che nel 1988 ha adottato una risoluzione sui diritti delle partorienti, legittimando il parto a domicilio; sono l’American College of Nurse-Midwives, l’American Public Health Association e la National Perinatal Association, che ufficialmente supportano il parto a casa o comunque fuori dall’ospedale per le donne a basso rischio; è la comunità scientifica internazionale.

A quest’ultimo proposito, la letteratura scientifica è ricca di studi, basati su evidenze scientifiche, che dimostrano come, in presenza di gravidanza a basso rischio ostetrico, di assistenza ostetrica competente e di integrazione tra questa ed i servizi ospedalieri, il parto a domicilio è una valida alternativa al parto in ospedale, non aumentando affatto il rischio di eventi negativi per la salute della madre e del neonato.
Ne cito solo alcuni, fra i tanti.

La revisione Cochrane più recente conclude che non vi sono forti evidenze da studi sperimentali (studi clinici randomizzati)  in favore della nascita organizzata in ospedale piuttosto che a casa, per le donne con gravidanza fisiologica ed in presenza di assistenza ostetrica e sostegno medico collaborativo in caso di trasferimento. Al contrario, il facile e routinario accesso all’intervento medico potrebbe incrementare il rischio di interventi non necessari al parto e le donne che partoriscono a casa hanno delle possibilità migliori di avere un travaglio spontaneo. Tra le donne che pianificano un parto a casa si verificano il 20/60% di interventi in meno come tagli cesarei, epidurali, e stimolazioni; e il 10/30%  circa in meno di complicazioni, come emorragia post-partum e lacerazioni perineali gravi (Ole Olsen, Jette A. Clausen; Planned hospital birth versus planned home birth; The Cochrane Library; 2012).

Nel documento “Home Births” del 2007, il Royal College of Obstetricians and Gynaecologists ed il Royal College of Midwives Joint Statement riconoscono che il parto a domicilio per le donne a basso rischio di complicazioni è sicuro ed offre un favorevole rapporto benefici/rischi, in termini non soltanto di salute fisica ma anche di benessere emozionale e psichico (Home Births. Royal College of Obstetricians and Gynaecologists and Royal College of Midwives Joint Statement No.2. April 2007. London: RCOG; 2007).
Uno studio nei Paesi Bassi condotto su 1836 donne a basso rischio ostetrico non ha riscontrato differenze negli esiti prenatali tra assistite in casa e in ospedale (Wiegers TA, Keirse MJ, van der Zee J, Berghs GA. Outcome of planned home and planned hospital births in low risk pregnancies: prospective study in midwifery practices in The Netherlands. BMJ 1996;313:1309-13); - uno studio effettuato a Zurigo, che ha confrontato 489 parti a domicilio con 385 parti ospedalieri, ha dimostrato che gli esiti sfavorevoli a carico delle donne e del neonato fossero comparabili nelle due tipologie di parto (Ackermann-Liebrich U., Voegeli T., Kunz I. et al, and Zurich Study Team: Home versus hospital deliveries: follow up study of matched pairs for procedures and outcome. BMJ 1996;313:1313-8).

Uno studio condotto su 5.418 donne statunitensi e canadesi, con basso rischio ostetrico e parto a domicilio, ha concluso che il parto a domicilio presenta un più basso tasso di interventi medico-operativi ed un simile tasso di morbosità e mortalità neonatale, rispetto al parto ospedaliero, studiato per un gruppo di donne con rischio ostetrico comparabile (Johnson KC, Daviss BA. Outcomes of planned home births with certified professional midwives: large prospective study in North America. BMJ 2005;330:1416).

Uno studio di 4.500 parti a casa nel Regno Unito è giunto alla conclusione che il parto a domicilio con basso rischio ostetrico non presenta rischi superiori al parto ospedaliero (Chamberlain G, Wraight A, Crowley P. Birth at home. Pract Midwife 1999;2:35-9).

Uno studio condotto dalla Provincia di Trento, Osservatorio Epidemiologico - Direzione Promozione ed Educazione alla Salute dell’Azienda Provinciale per i Servizi Sanitari, ha esaminato i 135 parti a domicilio registrati negli anni dal 2000 al 2005, rilevando che: si è verificato un solo caso di nato pretermine (0,7%, contro il 7,3% dei nati in ospedale; si è registrato un unico neonato di peso inferiore ai 2500g (2350g), contro il 6,8% nei nati in ospedale; si è registrato, come punteggio Apgar, il 91,1% dei nati a domicilio con punteggio pari a 10, contro l’81% dei nati in ospedale; tra i nati a domicilio il punteggio Apgar non va mai sotto il valore 7, mentre in ospedale l’1,1% dei nati ha punteggio inferiore a 7; si è presentato un solo caso di malformazione alla nascita (0,7%) contro l’1,02% in ospedale e un solo caso di necessità di rianimazione (0,7%) contro il 5,7% in ospedale; la proporzione dei trasferimenti clinicamente necessari è bassa (1/135, 4,4%) e in linea con gli studi osservazionali condotti in altri paesi.

Secondo uno studio statunitense reso noto al meeting dell’American Public Health Association nel 1976, che ha messo a confronto 1046 parti in casa con basso rischio ostetrico con 1046 parti in ospedale, i casi di complicanze in ospedale sono risultati cinque volte superiori e le emorragie post partum triplicate; inoltre, nei parti ospedalieri, il numero di tagli cesarei è risultato tre volte superiore rispetto alle nascite in casa, l’uso del forcipe 20 volte superiore, la percentuale di casi di alta pressione nella madre cinque volte superiore, la sofferenza fetale durante il travaglio triplicate, le infezioni neonatali quadruplicate. Nei due gruppi di parti non si sono verificate morti materne; in generale, nei parti pianificati a casa sono state registrate migliori condizioni di salute della mamma e del bambino (Lewis Mehl, Home Birth Versus Hospital Birth: Comparisons of Outcomes of  Matched Populations).

Nel Regno Unito, con il Winterton Report del 1992, il Comitato sui servizi materni della House of Commons ha concluso che “incoraggiare tutte le donne al parto in ospedale non è giustificabile dal punto di vista della sicurezza” e che “non esiste evidenza convincente o inoppugnabile che gli ospedali diano una garanzia migliore di sicurezza per la maggioranza di mamme e bimbi. E’possibile, ma non provato, che sia il contrario”
Il ricercatore danese Ole Olsen  ha esaminato i dati relativi a 25.000 bambini di tutto il mondo, nati a seguito di gravidanze a basso rischio, concludendo che: la percentuale di sopravvivenza dei bambini nati a casa non è differente da quella dei bambini nati in ospedale; nei parti a casa sono stati riscontrati un minor numero di interventi medici, di lacerazioni, di induzioni al travaglio, di tagli cesarei e di ricorso al forcipe (Ole Olsen, Department of Social medicine, University of Copenhagen, Denmark, Meta-analysis of the safety of home birth, Birth. 1997 Mar;24(1):4-13; discussion 14-6).

Uno studio condotto nel 1987 dal National Childbirth Trust, ha rilevato che il 22% delle donne ospedalizzate avevano contratto un’infezione postnatale, rispetto al 5% per cento delle donne con parto a casa.
L’elenco potrebbe continuare.

Prevengo la solita accusa del caso: non si disconosce, ovviamente, che alla base della diminuzione degli indici di mortalità neonatale e materna ci sia il progresso della scienza medica e della tecnologia. Tuttavia, si crede fermamente che questo progresso possa e debba essere utilizzato per umanizzare la “gestione” della gravidanza e del parto.

Purtroppo, temo che, finché si continuerà ad affrontare il tema del luogo del parto con i noti pregiudizi ideologici, si continuerà a dimenticare che la possibilità di scegliere la propria casa per partorire costituisce un diritto della donna.

Avv. Virginia Giocoli 

Nessun commento:

Posta un commento

E' possibile commentare questo post. Lo può fare chiunque, non è necessario essere iscritti. I commenti non sono moderati e quindi vi chiediamo di rispettare alcune semplici regole:
rimuoveremo commenti che nel linguaggio o nei contenuti siano razzisti, sessisti o omofobi. Non accettiamo commenti che siano offensivi o diffamatori nei confronti di persone.