sabato 1 febbraio 2014

FREEDOM FOR BIRTH ROME ACTION GROUP E’ PER LA LIBERTA’ DI SCELTA DELLE DONNE




Il 18 gennaio abbiamo realizzato un’importante iniziativa a Napoli in collaborazione con Terra Prena: la messa in scena al Maschio Angioino dello spettacolo “No Ospedali, No Parti” del Teatro Instabile della Tuscia Romana. Lo spettacolo, realizzato secondo la metodologia del Teatro dell’Oppressa e ideato da TITUR in collaborazione con Freedom For Birth Rome Action Group è stato già rappresentato diverse volte nel corso del 2013.
Nei giorni successivi all’iniziativa napoletana, che ha riscosso entusiasmo e partecipazione, sulla pagina Facebook della campagna “Il Buon Medico non Obietta” (che sosteniamo fortemente) si è svolto un dibattito a nostro avviso interessante e sono stati postati diversi commenti, anche molto lunghi ed articolati, che avevano come oggetto il nostro movimento e le nostre posizioni.
Li abbiamo letti tutti con molta attenzione e ci fa piacere vedere che le tematiche che proponiamo suscitino interesse e dibattito. Alcuni dei commenti postati, benché ci attribuiscano una linea teorica assolutamente errata e rechino giudizi nei nostri confronti tanto gravi quanto inappropriati, non ci dispiacciono affatto, poiché ci offrono l’occasione per esplicitare ancora meglio quello che, forse sbagliando, pensavamo di aver già chiarito sulla nostra pagina fb, in questo blog, nei dibattiti e nelle iniziative da noi organizzate o alle quali siamo state invitate a partecipare.
Cogliamo quindi l’occasione per esprimere con chiarezza e forza quali siano le nostre idee, posizioni, valori e obiettivi.
Tale elaborazione è frutto sì dell’incontro tra donne che condividono un punto di vista, ma si è arricchita nel corso del tempo anche grazie ad un significativo, ricco e sempre presente dibattito interno, nonché dal confronto e dal dialogo con quant* hanno interagito con Freedom For Birth – Rome Action Group dalla sua nascita.
Noi siamo, senza ipocrisie e senza timori, dalla parte delle donne che vogliono scegliere e si vedono negato questo diritto, che non hanno potuto scegliere o che non sanno, ancora, di avere diritto a farlo. Qualunque sia questa scelta, sia essa per il parto o per l’aborto, sia essa per le modalità ed il luogo del proprio parto. Si tratta, per noi, di questioni intimamente correlate, facce di uno stesso diritto umano: quello delle donne di disporre liberamente del proprio corpo.
Rivendicare questo non significa essere contro la medicina, la scienza, il progresso umano. Significa invece lottare contro gli abusi sul corpo delle donne, ovunque essi si verifichino. Per strada, tra le mura domestiche, nelle farmacie e negli ospedali occupati dagli obiettori, così come nelle sale parto. Significa sostenere che - non un qualsiasi intervento medico, come sembrano insinuare alcuni commenti, ma - un intervento medico non supportato da esigenze cliniche, oppure agito sul corpo della donna senza il suo consenso libero, informato e consapevole, o peggio da questa non voluto, è una violazione del suo corpo, della sua persona e della sua dignità.
Perchè negare che, anche al momento del parto, la donna debba potersi autodeterminare? Perché pensare che l’esser diventata madre di figli sani debba necessariamente ripagare la donna insoddisfatta di come è andato il parto? 
Di certo non disconosciamo il progresso medico e le conquiste vitali della scienza; così come ovviamente non neghiamo che la medicina salvi la vita umana. Un’etichetta del genere è davvero artificiosa e pecca, in tutta franchezza, di semplicismo. E se i commenti non fossero stati postati sulla pagina del Buon Medico Non Obietta, si cadrebbe facilmente nella tentazione di leggere, nelle accuse di “misticismo” e “ascientificità”, la ben nota trappola di chi preferisce trasformare le battaglie per l’autodeterminazione delle donne in conflitti ideologici pro o contro i medici, pro o contro la vita, pro o contro la salute, proprio come succedeva (e purtroppo succede) per l’aborto.
Non è nostro intento quello di istruire i medici o di sostituirsi a loro. E’ proprio il contrario: chiediamo che le donne vengano proprio da loro informate, così da non doversi “domandare” che un intervento medico sia stato necessario, ma da averne la certezza, basata sulle evidenze scientifiche.
Ma ci sentiamo anche libere di sostenere che il progresso della scienza medica sia altro dall’eccesso di medicalizzazione, che, lungi dal poter essere giustificato come un trascurabile e socialmente accettabile prezzo di quel progresso, finisce invece per rinnegarlo. D’altronde, se l’OMS definisce normale e medicalmente giustificato un tasso di cesarei del 10-15%, è più che legittimo pensare che tassi del 60% rispondano a ragioni diverse dalla necessità di salvare la vita o evitare complicazioni. Così come è legittimo chiedersi perché quella di tagliare la vagina della donna, che dovrebbe essere una pratica attuata solo in una percentuale molto bassa e ben definita di casi (circa il 5%) ed invece viene praticata in modo routinario a quasi tutte le partorienti, spesso senza il loro consenso, oppure quella di spingere con braccia e gomiti sulla sua pancia siano considerate prassi normali e praticate nella stragrande maggioranza dei parti, laddove la stessa letteratura medica - e non certo le “fanatiche” del parto in casa - ne sconfessa la necessità e ne evidenzia la pericolosità? 
Tutte le volte in cui l’intervento medico non è necessario e nel contempo, o comunque, non è acconsentito dalla donna esaustivamente informata, noi ci “arroghiamo” il diritto di dare, a questo eccesso di medicalizzazione, un altro nome: quello di violenza sul corpo delle donne, per la quale non può valere l’esimente della medicina che salva la vita.
E’ violenza ostetrica anche negare l’aborto farmacologico, “proponendo” o meglio imponendo come unica possibilità quello chirurgico. Eppure si tratta, anche in questo caso, di un trattamento sanitario…
Noi speriamo vivamente che ci si renda conto che la concezione del parto e della gravidanza come eventi patologici (ovvero fisiologici solo a posteriori) sia frutto di una cultura paternalistica,  incentivata o forse scaturita da esigenze della medicina difensiva, che svilisce le donne a (s)oggetti incapaci di valutare e scegliere ciò che è meglio per loro. Del resto, perché mai dovremmo continuare a vedere la sala parto come un luogo avulso dal contesto sociale e culturale, piuttosto che leggerne i riflessi? Eppure, un processo di ridefinizione del parto e della gravidanza, per il quale saremmo ampiamente supportate e confortate dalle medicina delle evidenze scientifiche, gioverebbe all’autonomia e centralità delle donne nelle decisioni sulla loro salute riproduttiva - in primis in quelle per l'interruzione della gravidanza -, così come all’ansia degli operatori sanitari, che noi consideriamo nostri auspicati interlocutori.
Dopo tutto questo, speriamo che sia adesso più comprensibile il motivo per cui parliamo di parto a domicilio più di quanto non parliamo del cesareo elettivo: ciò non corrisponde alla volontà di proporre quel modello di parto, ma all'impellente necessità di parlare di diritti negati, piuttosto che di situazioni consolidate. Non ci sembra, infatti, che per il cesareo elettivo la scelta delle donne  venga ostacolata (benché resti da capire quanto questa scelta, che statisticamente resta del tutto marginale, si sia formata sulla base di informazioni scientificamente corrette ed esaustive).
Non riusciamo poi a comprendere perché sostenere le donne che vogliono partorire a casa sia considerato frutto di fanatismo mistico. A parte il fatto che se rivendichiamo, come noi vogliamo fare, il diritto di ogni donna di scegliere per il proprio corpo, anche la scelta “ascientifica” – ammesso e non concesso che il parto a domicilio lo sia - dovrebbe trovare titolo e andare esente da pregiudizi di sorta.
Diversamente, si cadrebbe nella stessa arroganza e prepotenza che noi e le commentatrici contestiamo: quella di dire alle donne quando e se diventare madri, quando, dove e con quali modalità partorire, come essere madri, come crescere e nutrire i loro figli. E’ facile cadere nella tentazione di inneggiare a modelli ideali (ospedalizzati o non che siano, naturalisti o meno che siano), quando invece è solo con la personalità, le esigenze, la cultura di ogni singola donna che la legittimità di quel modello deve misurarsi.
E’ in nome della centralità della donna rispetto ai percorsi della salute riproduttiva che Freedom for Birth Rome Action Group rifiuta di proporre un modello di parto, un modello di donna, un modello di madre.
Con quanto sopra, non riteniamo sia contraddittorio divulgare informazioni, che consolidate e filtrate dal vaglio di ISS, OMS, letteratura medica ed Evidence Based Medicine, correttamente ci illustrino i vantaggi - in termini di salute pubblica e individuale, di salute materna e infantile e, diversamente da quanto abbiamo letto sopra, persino di spesa pubblica -, del parto naturale rispetto a quello chirurgico, i benefici dell’allattamento materno rispetto a quello artificiale, del controllo del dolore non farmacologico rispetto a quello farmacologico, etc. Si tratta, semplicemente, di dare quelle informazioni scientificamente corrette che la donna ha il diritto di avere prima di compiere una (qualunque) sua scelta.
E, benché tentate, evitiamo in questa sede di ripercorrere la copiosa letteratura scientifica e medica che, in caso di gravidanza fisiologica, riconosce al parto a domicilio esiti comparabili, se non addirittura migliori, rispetto al parto in ambiente ospedaliero (tra cui una revisione cochrane, per citarne una), rimandandovi, qualora ve ne sia sorta la curiosità, a nostri articoli precedenti. Sul parto a domicilio, infatti, non vogliamo proprio convincere nessuno.
Quello che ci interessa e' che la scelta di ogni donna non venga giuridicamente, economicamente, socialmente e culturalmente ostacolata. Siamo certe che questa lotta sia tra noi e le commentatrici condivisibile più di quanto non sembri.
Freedom for Birth Rome Action Group

ABORTIRE E’ UN DIRITTO FONDAMENTALE DELLA DONNA







Il 1° febbraio 2014, FREEDOM FOR BIRTH ROME ACTION GROUP scenderà in piazza per rivendicare il diritto di ogni donna di autodeterminarsi rispetto al proprio corpo.
Alla luce delle recenti derive maschiliste che, in Parlamento Europeo come in Spagna, stanno gravemente compromettendo la libertà delle donne di decidere quando, se e come fare un figlio, ci sembra il momento per fare alcune riflessioni sulla Legge 194.
Noi stesse abbiamo in più occasioni sostenuto che la Legge 194/78 debba essere difesa. Tuttora lo sosteniamo e lo gridiamo con ferma convinzione, così come lo grideremo il prossimo 1° febbraio 2014.
Tuttavia, sentiamo anche l’esigenza di rivendicare che la Legge 194 va migliorata. Ecco il perché.
Il diritto all’aborto nasce con la donna, non con una legge di stato: è un diritto umano e inviolabile della persona.
A fronte di un diritto della persona umana, il compito di una legge è riconoscerne l’esistenza e garantirne la pratica attuazione.
La Legge 194/1978 non riconosce alle donne un diritto all’aborto, non riconosce che l’aborto sia un diritto fondamentale della persona, innato in ogni donna. Di conseguenza, lo regolamenta in modo restrittivo e non offre alcuna garanzia di effettività alle donne.
Nell’impianto della 194, la scelta della donna di abortire è correlata ad un “serio pericolo” per la sua salute fisica o psichica. Pur essendo previsto un ampio ventaglio di motivazioni (salute fisica, malformazioni del feto, motivi di ordine sociale, economico o familiare), queste assumono rilevanza solo se mettono a rischio la salute della donna; scontato che per poter scegliere di abortire ci debba necessariamente essere una di queste condizioni.
Quella della donna che si rivolge al medico o ad una struttura sanitaria chiedendo l’assistenza per l’aborto, non è considerata una scelta, ma una mera “intenzione”, da analizzare, vagliare, sindacare, approfondire.
Inizia, così, una vera e propria indagine sui “problemi” che (necessariamente) devono aver portato la donna a chiedere l’interruzione della gravidanza, un’indagine finalizzata non solo al sostegno della donna - che poi questo sostegno sia richiesto o non, poco importa! -, ma piuttosto alla ricerca di una risoluzione di questi problemi. Un colloquio, lo sappiamo, frutto di un compromesso storico e magari, nella pratica, meramente burocratico, eppure imprescindibile nell’iter della 194.
Nessuna altra legge statale prevede con altrettanta enfasi la promozione di ogni “opportuno intervento atto a sostenere la donna, offrendole tutti gli aiuti necessari sia durante la gravidanza sia dopo il parto”.
Nessuna altra legge prevede con altrettanta enfasi la necessità di mettere la donna “in grado di far valere i suoi diritti di lavoratrice e di madre”, come invece questa legge che, in realtà, dovrebbe garantire le donne che non vogliono diventare madri, che siano o meno lavoratrici.

Insomma, il medico deve assicurasi che la donna sia davvero convinta di interrompere la gravidanza e che le (presupposte) motivazioni non possano essere superate.
Dopo il colloquio sulle motivazioni, il medico rilascia, di fatto, un “nulla osta”, con cui la donna si può presentare in ospedale. Non subito però: lei deve riflettere ancora per sette giorni, dovendo osservare l’invito del medico di soprassedere per un’ulteriore settimana.
La Legge 194, poi, pur prevedendo che le Direzioni Sanitarie e le Regioni siano tenute ad assicurare l’assistenza anche in caso di obiezioni di coscienza, non prevede alcun obbligo cogente né sanzioni per il caso in cui la donna venga caldamente invitata a recarsi altrove per l’aborto (anche terapeutico), come ogni giorno accade.
La stessa possibilità di esercitare l’obiezione di coscienza - e non ci addentriamo qui sul tema - finisce per relegare ad un rango meramente secondario quello che è un diritto fondamentale della donna, prevalendo su questo nella realtà dei fatti.
Crediamo, allora, sia giunto il momento di riconoscere che:
- le motivazioni che inducono una donna all’aborto non devono essere vagliate, giudicate o risolte;
- quello all’aborto è un diritto di rango costituzionale, appartenente alla persona umana, che trova fondamento non soltanto nel diritto alla salute ma anche, ed anzi soprattutto, nel diritto di ogni donna di esplicare la propria personalità.
Prevedere che il medico o la struttura sanitaria si debbano “prendere carico” delle (presupposte) problematiche di una donna che vuole abortire - per tentare di dissuaderla! – significa disconoscere che:
la donna è sovrana e competente nel decidere per sé e per il proprio corpo;
la scelta della donna non va indagata;
la donna potrebbe non avere motivazioni socialmente rilevanti all’aborto e potrebbe decidere di interrompere la gravidanza anche se portarla a termine non le causerebbe un problema di salute fisica o psichica o un’infermità mentale.
In realtà, l’esclusione economica e la marginalizzazione sociale delle donne, le discriminazioni sul lavoro, la tutela della salute, piuttosto che essere ridotte a meri pretesti per controllare le scelte delle donne, dovrebbero essere seriamente affrontate nelle sedi opportune: nelle aule parlamentari, con le riforme del lavoro e dello stato sociale; con i programmi di governo e con i bilanci dello stato e delle regioni. Senza ipocrisie e paternalismi.
E, intanto, finanziare, potenziare, valorizzare i Consultori e favorirli nella loro importante attività di prevenzione e promozione della salute della donna, sarebbe già un segno di buona volontà.
Siamo, quindi, veramente sicure che in Italia la situazione non sia già simile a quella che si prospetta in Spagna? Uno sguardo alla recente proposta di legge francese potrebbe forse aiutarci a capirlo.
Freedom for Birth Rome Action Group